Novembre 2001
Gita a Padova, perché Giotto è sempre Giotto…
TROPPA GRAZIA, S. ANTONIO!!
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori[1]… mi attendono alla stazione centrale di Milano, davanti alla fontana invisibile e introvabile, la mattina del 26 novembre 2001, alle ore 6.45. Invece mi trovo di fronte a una congrega di candide matricole… si, insomma quelli delle lauree triennali, paghi tre e prendi due! Timidamente, ma con tono autoritario (perché esigo rispetto da gente di cotal guisa), mi rivolgo a loro, per assicurarmi che appartengano alla comitiva – Flores.
«Certamente!» rispondono, con le loro voci cinguettanti, ancora impregnate di tesina e terza prova. Quindi seguitano a discutere fra loro di crediti e debiti. Poverini! Ne hanno già così tanti alla loro età?
Intanto il gruppo si arricchisce di nuovi elementi: arriva Elena, poi Fabio, qualche vecchietto, quelli della scuola di specializzazione, e infine Silvia. Si tratta della sua prima gita in seguito alla conversione al buddismo cataro: chissà che non sia colta da qualche crisi mistica, vagabondando su e giù per chiese e cappelle…
Finalmente il furher Martino[2] compie la sua entrata trionfale, scortato dai suoi uomini. È stato programmato per condurci a Padova. È la sua missione.
Immediatamente prende pieno possesso della situazione, ergendosi, come un Cristo in mandorla, sopra la massa informe di matricole, sopra gli studenti di specializzazione, sopra di noi. Detta i suoi comandi, impartisce ordini, riesce a sedare ogni tipo di opposizione sul nascere. Pretende l’assoluto silenzio. In questo modo organizza la disposizione dei deportat… delle persone sui diversi vagoni del treno, e decide di relegarmi in quello delle matricole, separandomi così dal resto del gruppo.
«Non potrei sedermi insieme alle mie amiche?» protesto ingenuamente, suscitando l’ira del dittatore, che mi fissa con il suo sguardo pietrificante, intimandomi, dal profondo gelo degli occhi, di tacere.
Sono dunque costretta a cedere, e, terrorizzata e atterrita, mi precipito nel vagone carico di matricole, mentre gli altri sono dilaniati dalla nostalgia, dall’altra parte del treno.
I ragazzi - benetton (definiti in questo modo per via della loro età, zero – dodici) mi parlano, con voce tenera e fresca, ponendomi questioni come: ma che cos’è una biennalizzazione? Come ci si iscrive agli esami? È importante seguire teologia?
Sfinita dai vani tentativi di esporre alcune fondamentali caratteristiche del mondo universitario, cerco rifugio in un sonnellino, eppure non riesco a cessare di ascoltare quelle voci. Devo ricredermi: talvolta, questi ragazzi, che fino a ieri copiavano i compiti di matematica prima dell’inizio delle lezioni, riescono a stupirmi portando a compimento alcuni ragionamenti non privi d’arguzia come: «ma io l’esame di letteratura italiana penso proprio di dividerlo in due parti[3]».
Appena il treno giunge a Padova, abbandono le mie matricole e raggiungo le solite vecchie canaglie: insieme ci immergiamo nella cappella Scrovegni, riempendoci gli occhi di Giotto. Dato che il celebre luogo sta attraversando una fase di restaurazione, possiamo avvalerci delle impalcature per osservare da vicino i capolavori dell’artista trecentesco.
È vero, la cappella Scrovegni è irriconoscibile nel suo aspetto “operaio”, tuttavia è un’emozione unica, accessibile a pochi, ammirare a distanza ravvicinata le opere di Giotto, che in condizioni normali non avremmo potuto vedere così dettagliatamente. L’unica nota di sconcerto è data dalla presenza delle impalcature, malferme e traballanti, che miracolosamente riescono a sopportare il nostro peso, e anche quello della Flores.
Non appena termina la nostra visita alla celebre cappella, ci precipitiamo nel parco più vicino per pranzare, e quindi è la volta della chiesa degli Eremitani, dove la Flores ci inquieta con una delle sue caratteristiche più disarmanti e meno note: l’umorismo macabro alla Dylan Dog. La sarcastica donna, infatti, rileva come le statue di un sarcofago sembrino vive, sebbene rappresentino dei morti. Ride da sola. Siamo ancora in preda allo sconcerto.
Sarcofagi a parte, nella chiesa ci imbattiamo anche in alcune opere di Altichiero, uno dei discepoli di Giotto, prima di dirigerci verso l’incantevole chiesa di S. Antonio. Invece di soffermarci ampiamente sui numerosi capolavori, come la deposizione di Donatello, siamo come rapite dagli ex voto che sono ovunque. Elena, in particolare, prega intensamente davanti a questi. «Certo che ne ha fatte tante di grazie!»
La stessa fanciulla, poco dopo, riesce a meravigliare l’intera compagnia, riuscendo a datare quasi a occhi chiusi un monumento del Trecento, che rappresentava due angeli straziati.
Il nostro tour, rapido ma denso, si conclude con la visita al battistero, affrescato da Giusto de’ Menabuoi, un altro della combriccola di Giotto, o meglio del suo entourage. Dopodiché abbandoniamo Padova, rivolgendole l’ultimo malinconico saluto dalla stazione. Ma stavolta, sul treno non sorgono problemi riguardanti le divisioni e gli scompartimenti: nessuno, ti giuro, nessuno, nemmeno il Martino ci può separare, anche perché molte delle matricole si sono date alla macchia, essendo partite con il treno precedente, forse perché temevano di perdersi l’episodio dei Pokemon.
E, finalmente, proprio sul treno del ritorno, si compie l’agognato miracolo: l’eletta è Elena, che misteriosamente scampa a un’enorme e pesante valigia, che le stava precipitando sulla testa con inesorabile potenza. E pensare che ho visto tutta la sua vita passarmi davanti! È stato uno spreco di immagini…
Comunque io ritengo che vi sia anche lo zampino della Flores, la quale protegge perennemente i suoi studenti, anche a distanza, soprattutto quando questi mostrano devozione per la sua città natale.Padua me genit[4], un giorno si dirà.
[1] Omaggio all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto
[2] Uno studente dell’ultimo anno, adulatore impenitente della prof. Flores d’Arcais, come del resto di tutti i professori.
[3] È obbligatorio sostenere l’esame di Letteratura Italiana in due parti
[4] Omaggio alla prof. Flores d’Arcais, originaria di Padova
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