Quando ogni semaforo in cui t’imbatti è rouge,
quando vedi tutto noir…
allora, non ti resta che intonare…
LE VIE EN ROSE
PRIMO GIORNO: 24 APRILE
Il sogno di Parigi viene da lontano: annunciato a lezione da Zanchetti, bisbigliato nei corridoi, quasi ucciso dai loschi figuri del CTS[1], archetipi d’incompetenza e imbecillità, e poi, come per magia, salvato, rianimato, tanto che non sembra vero ritrovarsi, nel pomeriggio del 24 aprile, alla stazione centrale, in attesa del treno in cui sono stati prenotati i nostri posti.
In realtà, una spiacevole sorpresa ci attende sulla vettura: tre bizzarri individui hanno usurpato alcuni dei nostri posti, costringendoci a una sana sfuriata nei loro confronti.
Si tratta, più precisamente, di un vecchio, che si rifiuta decisamente di andar via, finché il treno non giunge a Genova, e di due giovani sbandati che ci tocca sopportare fino a Nizza.
Intanto, compaiono alcuni significativi personaggi del “gruppo Cattolica”: Cristina Casero, l’assistente di “Zanca[2]”, una donna di circa 40 – 45 anni, come acutamente puntualizza Daphne offendendola; Angelica e Fabio, che ostentano tutta la loro diplomazia con i tre usurpatori, senza tuttavia ottenere alcun successo. E poi Sara, Lavinia, qualche bresciano, il misterioso Eraldo, che inizialmente tutti credono un cultore d’arte contemporanea; la contessa Elena, donna di classe, con il suo carico di prugne; infine, Daphne, che, seduta accanto a me, esprime tutti i suoi languori e ripensamenti. Le sovvien del suo petit garçon, lasciato in Italia; architetta epiche imprese per cercare di condurlo a sé (treni da rincorrere, viaggi improvvisi, prenotazioni, spostamenti di stanza), ma ogni tentativo si rivela vano, e la prof. Cristina minaccia di bocciarla almeno quattro volte se seguiterà a parlare di Chicco.
Ma la Casero non si ferma qui, e si erge a protagonista assoluta della scena: oltre a prometterci un quarto d’ora di terrore durante il colloquio di storia dell’arte, cerca di mimetizzare Eraldo, il suo compagno, tra gli assistenti di Brescia; quindi ci intrattiene lietamente con una serie di pettegolezzi sui professori... la Flores è una marchesa (forse imparentata con Elena?), in gioventù Celestina Milani corteggiò Caramel[3], ovviamente invano… e via discorrendo. Ma anche noi non siamo da meno, ed è subito Nizza, tra un sospiro a Chicco e qualche simpatica allusione agli assenti.
In seguito a una breve pausa, saliamo sul treno diretto a Parigi. Lì, oltre a districarci tra gli spazi angusti dei corridoi e delle cuccette, apprendiamo qualche particolare riguardo la storia d’amore tra Eraldo e Cristina e dormiamo cullati dal riposante dondolio del treno, finché Daphne, alle quattro del mattino, non decide di andare a lavarsi i denti, destando e gettando scompiglio nell’intera cuccetta assonnata. Che notte!
Tra l’altro, alla stessa ora, un personaggio non identificato, forse un clandestino, penetra in uno dei bagni senza essere visto da alcun testimone, per non uscirne più.
Al mattino, infatti, il gabinetto è ancora occupato, perenne giaciglio di chissà quale criminale, e a nulla valgono i miei tentativi di abbattere la porta.
«Probabilmente il bagno è stato chiuso dal controllore» afferma un’altra assistente di arte, apportando una spiegazione rassicurante e banale, che tuttavia non ci appaga, e lascia aperta ogni questione sui misteri del treno Paris- Auswicht… ehm… Austerliz, pardon.
SECONDO GIORNO: 25 APRILE
«Il CTS ci ha assicurato che l’albergo è praticamente attaccato alla stazione, quindi ci arriveremo immediatamente!» sostiene qualche ingenua, in una fresca mattinata parigina, tra croissant, baghette e caffè olè[4]!
In realtà, il CTS, che una ne pensa e cento ne fa, deve aver confuso qualche stazione, e così ci rendiamo conto di essere dall’altro lato della città rispetto all’hotel Est. Ma non ci perdiamo d’animo, e subito acquistiamo un abbonamento della metropolitana, perché il tempo è denaro… come si dice in Francia: the time is Euros!
Finalmente mettiamo piede in albergo, dove io, Elena e Daphne conosciamo la nostra compagna di stanza: una bizzarra studentessa dello Stars (mah? Star wars? Dams ridotto?), impeccabile, in giacca e cravatta, ma molto, molto strana.
Daphne, tra i problemi con Chicco e quest’incomodo, vorrebbe tentare il suicidio gettandosi su Boulevard de Magenta, su cui si affaccia la nostra finestra, ma Elena la sottrae da tergo, un po’ come Rinaldo con Armida[5].
Ilaria, la compagna di stanza in questione, fa parte del “gruppo pullman”, giunto in hotel in tarda mattinata, reduce da un travagliato e interminabile viaggio, tra deviazioni e smarrimenti nel bel mezzo della Svizzera.
Barbara, infatti, appare molto provata, come del resto tutti i suoi compagni di sventura, tra cui Floriana, detta Gira-La-Moda a causa del suo prestigioso lavoro, e l’inseparabile Federica.
Il gruppo è ormai al completo: possiamo partire alla scoperta di Parigi!
La prima tappa prevede la visita a una struttura araba, dove gli ascensori sono lanciati a tutta velocità; poi è la volta del Museo d’Orsay, in cui ci immergiamo per circa sei ore, fino alla chiusura notturna.
In questo nido di capolavori, oltre alla mostra su Mondrian, ci soffermiamo sul Romanticismo, con la Casero, che ci illumina di tanto in tanto con le sue spiegazioni. Avevo proprio voglia di un po’ di Sturm und Drang!
E poi, improvvisamente, L’origine del mondo!
Si tratta di un quadro di Courbet decisamente realistico, che diverte molto Sara, sul quale indugiano tutti i maniaci presenti nel museo.
Approdati nella sezione dedicata all’Impressionismo, davanti a un quadro di Manet, vuoi per la spossatezza, vuoi per l’emozione, Daphne non riesce a distinguere un gatto bianco da un gatto nero, ma non possiamo infierire su di lei: lo smarrimento di fronte ai capolavori di Tolouse Latrec, Gauguin, Rousseau, Monet, Renoir, Morisot, Moureau, Ingres, Delacroix, Millet, Corot, Courbet, Degas, Van Gogh, Cezanne, Le Dounier, Serat e Signac (e tanti altri) è naturale.
Purtroppo, alle 21.45 circa, i francesi decidono di cacciarci dal museo, e così, esausti, affamati, infreddoliti e tormentati dai talloni doloranti, cerchiamo un posto per mangiare.
Cammina cammina, constatata l’inesistenza di un Mac Donald in tutta Paris, ripieghiamo, da bravi provinciali, su un locale tutto italiano, dove assaporiamo, dopo tanto tempo lontani da casa, i piaceri della pizza margherita, e dove Lavinia inizia a dar prova delle sue abilità di prestigiatrice, scomparendo per poi magicamente riapparire (ma questo è nulla a confronto di quanto sarebbe accaduto poi!).
In pizzeria, è Gira-La-Moda la vera rivelazione del gruppo: parla di sé, del suo lavoro, che consiste nell’organizzare sfigate di moda e nell’immobilizzare le modelle mentre cercano di vestirsi.
Scherzi a parte, si tratta di un discorso avvincente, tuttavia le sue parole suonano come l’incrocio tra un radiodramma, un cartone animato educativo e un citofono!
Al ritorno in albergo, in metropolitana, veniamo circondati da una tregenda d’uomini e donne che sembrano sapere il fatto loro. «Uh, i testimoni di Geova!!» esclamo, atterrita e sconcertata dall’improvvisa apparizione. Invece si tratta semplicemente dei controllori del metrò.
Tiriamo un sospiro di sollievo. Le notti parigine sono brave.
TERZO GIORNO: 26 APRILE
Cominciamo bene! La sveglia di Elena non suona, perbacco, dunque siamo costrette a precipitarci in bagno, e prepararci in pochi minuti.
La contessa, invece di riparare l’infame orologio, pensa ai programmi per la giornata: «potremmo visitare Notre Dame e la Saint Chapelle…» propone.
Ma la prima visita prevista è al museo Picasso, insieme all’azzoppato e sorridente professor Zanchetti, che ci ha raggiunti in aereo con un giorno di ritardo, e, sorpresa delle sorprese, è il nostro vicino di stanza!
All’entrata subiamo le angherie della portinaia del museo, che ci impedisce di passare, insultandoci in francese, ma, non appena superato quest’ostacolo, possiamo assistere allo show di “Zanca”: l’uomo rischia di precipitare dalle scale a causa del suo bastone malfermo; poi si cimenta in abbondanti spiegazioni per ogni quadro, zittendo e soverchiando l’ammutolita Cristina Casero, ed è sempre presente, quasi mimetizzandosi tra le opere di Picasso.
All’ora di pranzo, quindi, non ci resta che optare per una tipica crêperia francese, dove siamo accolti da un «alesi!» (a cui non potevo non rispondere con «Shumacher!»), dove il formaggio è molto, ma molto salato, dove Fabio e Angelica non possono trattenersi di fronte alla celebre crêpe alla nutella, e, infine, dove Elena seguita a progettare le visite future: «potremmo andare a vedere Notre Dame e la Saint Chapelle…» ripete per circa dieci volte, rivolgendomi sguardi complici. E probabilmente gli altri la prendono sul serio, dato che, sulla strada per il centro Pompidou, il gruppo si allontana rapidamente da lei, lasciandola in mia compagnia.
Insieme, iniziamo a ragionare: siamo un po’ stanche, abbiamo perso il gruppo… tu, Elena non stai neppure molto bene… Parigi trasuda di libertè, egualitè, fraternitè da tutti i pori... insomma, è destino!
Pertanto ci rechiamo a Notre Dame e alla Saint Chapelle, dove, tra l’altro, Elena ha qualche problema con il metal detector.
Ma io sono un narratore onnisciente: gli altri, al Pompidou, si imbattono nei Surrealisti, in una mostra, apprezzata da tutti, e in un tipo particolare di arte, che consiste nel tagliarsi le vene (si tratta di una raccapricciante performance delle avanguardie contemporanee). La visita termina tardi, la sera, mentre io ed Elena, tornate in albergo, cerchiamo di chiedere informazioni riguardanti il resto del gruppo, non vedendo tornare nessuno.
Purtroppo, l’uomo della reception non parla né l’italiano né l’inglese, e noi non ce la caviamo né col francese né con l’occitanico.
«Espaňol?» chiede allora cortesemente l’omino.
«Si, si!» rispondiamo con entusiasmo, un po’ come Totò e Peppino.
«Nosotros» comincio, priva di incertezze «nosotros estamos buscando… nosotros amigos!»
«Faby, gli hai appena detto che vogliamo essere sue amiche[6]!»
Combinato l’ennesimo danno della giornata, decidiamo di recarci a Monmarte, il luogo più suggestivo di tutta la città. Musicisti, pittori, artisti, scrittori, perditempo, sguardi ovunque benevoli, angoli intrisi di poesia e viste d’altri tempi ci avvincono a tal punto che ci dimentichiamo delle ore che inesorabilmente passano (mentre tutti in albergo ci attendono preoccupati) ma non scordiamo certamente di dover cenare; così ci avviciniamo alla pittoresca e antica bettola del coniglio bianco, in passato frequentata anche da noti artisti, dove le persone, non si sa perché, si chiudono a chiave, ma, quel che è certo, si mostrano molto disponibili, e rispondono alle nostre domande: nel bizzarro e affascinante locale, che tuttavia offre svariate possibilità, purtroppo non si mangia. Pazienza! Comunque mi sono sentita “molto Baudelaire”!
A Monmartre, il luogo più sognante di tutta Parigi, una bottiglia d’acqua costa quattro euro, figuriamoci la cena!
Malgrado ciò, ci consoliamo contemplando il panorama notturno dal Sacre Coeur (che per fortuna non è “l’università Cattolica del”) prima di renderci conto del nostro ingiustificabile ritardo e rinculare precipitosamente verso Gare de l’Est. Giunte in albergo, ci imbattiamo casualmente in Cristina Casero, che pretende una “spiega” su quanto accaduto nel pomeriggio e nella serata.
«Le notti parigine sono folli…»
QUARTO GIORNO: 27 APRILE
Durante la mattina del quarto giorno inizio a chiedermi come Sara riesca sempre a farsi servire due croissant, mentre io posso gustarne uno solo. Poco importa, penso, intascando una baghette, poiché la parola d’ordine per tutti, da questo momento in poi, è risparmiare, in seguito alle vertiginose spese dei primi giorni. Così Barbara riesce a procurarsi un casco di banane che costano un euro l’una, e, a distribuzione avvenuta, possiamo incamminarci verso la prima meta della giornata: il museo di arte contemporanea, dove non soltanto possiamo ammirare le opere di artisti come Modigliani e Branuer, ma anche farci fotografare tra i tentacoli di un ragno gigante, guardare un video–art interpretato da un travestito, e, in particolare, immergere i nostri amorosi sensi, e le nostre menti nella candida “stanza per meditare”, dove tutto è bianco, silenzio, ultrasuoni, irrealtà. Una vera esperienza.
Poco prima di lasciare il museo, inoltre, Gira-La-Moda è come folgorata da un pensiero: «devo andare a cogitare» dice, incalzata dall’ansia, dirigendosi a passi rapidi verso il bagno. «Ho cogitato!» esclama poi, sollevata, all’uscita dello stesso gabinetto. Tutti ci guardiamo meravigliati riflettendo su questa espressione di conio “florianesco”.
Per completare il programma pomeridiano dovremmo visitare un altro museo, ma, giunti davanti all’ingresso, lo troviamo chiuso, e neppure Zanchetti riesce a farsene una ragione.
Il pomeriggio è dunque libero, e decidiamo di dedicarlo allo shopping. «Ora che siamo a Parigi» medito «possiamo finalmente vedere i celebri grandi magazzini Harrods!» In realtà Harrods è a Londra, e io non saprei dove andare se Gira-La-Moda, che tra l’altro sta per maritarsi, non mi guidasse freneticamente in una corsa vorticosa attraverso gli champ Elysee, La Fayette, Walt Disney e l’arco di trionfo.
«Forza ragazze: questo non è il passo delle bersagliere!» incita Federica, la vera mattatrice della maratona, soverchiata da un pensiero dominante: Fuscion.
Si tratta di un negozio di cioccolatini, dolci e dolcetti, dove l’amica di Gira-La-Moda vorrebbe accamparsi, mentre io ed Elena cerchiamo di trarre giovamento dalla situazione, scroccando, al banco della degustazione, delle caramelle, che si rivelano decisamente sgradevoli e soprattutto piccanti! Ah, questi francesi!
Ma non possiamo lamentarci, c’è di peggio: Sara viene infatti resa un bersaglio vivente dai piccioni di tutta Parigi, che non esitano a colpirla ripetutamente.
Al ritorno nel famigerato hotel Est, nell’arco di tempo compreso tra il tardo pomeriggio, la sera, la notte e il mattino del giorno dopo, alcuni accadimenti sconcertano la nostra esistenza, in particolare la mia e quella delle mie compagne di stanza, Daphne ed Elena.
Non appena varcata la soglia del bagno, infatti, ci rendiamo conto di aver subito un infido affronto dall’infame compagna di stanza, che, per lavarsi, ha consumato tutti i nostri asciugamani. Fortunatamente, come un deus ex machina, Angelica ci dona la sua scorta di salviette, e, almeno per stasera, la doccia è salva.
Durante la notte, poi, folli e insani pensieri turbano le nostre menti; le parole e i comportamenti più bizzarri prendono pieno possesso dei nostri cuori, dando vita a una sorta di teatro dell’assurdo nostrano: Elena parla nel sonno, come colta da misticismo, alterando a piacimento la voce, e implorando in toscano di non mandarla su Quark; io, nel pieno della mia lucidità, continuo a ripetere che la biblioteca di storia dell’arte è “castrante”; Daphne, infine, è sonnambula, e alle quattro del mattino apre la porta a uno sconosciuto, senza tuttavia ricordarsene il mattino successivo.
Le notti parigine sono deliranti.
QUINTO GIORNO: 28 APRILE
Il giallo dello sconosciuto che bussa alle quattro viene risolto durante il mattino seguente dalla sottoscritta, che rinviene un bigliettino della compagna di stanza Ilaria: era lei, elementare Watson!
«La ragazza ha passato tutta la notte fuori, con quelle depravate delle sue amiche, e ora dorme beatamente nella stanza accanto» intuisco, prima di partire insieme al resto della truppa alla volta del museo Rodin.
L’artista gode di ampi consensi tra di noi, e pertanto non possiamo che apprezzare opere come Il pensatore, Il bacio, La porta dell’inferno e Balzac. Ma, soprattutto, vediamo tante mani scolpite dall’autore. Mani, ovunque. Rodin era un vero “maniaco”. Le ore scorrono rapidamente all’interno della sua casa–museo, circondata da uno splendido giardino, così che, in men che non si dica, ci troviamo a dover fare i conti con i programmi alternativi per il pomeriggio.
«Io vorrei vedere la torre Eiffel…» si pronuncia Elena, ma poi è costretta a recarsi al museo di Fontana con quel burlone di Zanchetti.
Il gruppo più numeroso si avvia verso Notre Dame e la Saint Chapelle. Per entrare in quest’ultima, sublime ed eccelsa chiesa, tuttavia, è necessario superare controlli rigorosissimi, tanto che, molti sono ispezionati, perquisiti dalla testa ai piedi, e sono costretti a passare più volte sotto il metal detector, spogliandosi progressivamente, magari anche solo per colpa di una spilla da balia.
Gira-La-Moda rischia addirittura di essere arrestata, a causa di un ridicolo coltellino, adatto, forse, soltanto a limarsi le unghie.
Quando, in seguito a questa serie interminabile di ispezioni, possiamo mettere piede nel cortile della meravigliosa Saint Chapelle, non posso fare a meno che estrarre il mio inseparabile coltello (che gli agenti non sono riusciti a identificare), voltarmi e farmi beffe di tutti i francesi, sotto gli occhi sconcertati della Casero. «Rimettilo a posto!!»
La maestra Cristina, oltre a dichiararsi appassionata di nudo maschile dalle 6.00 del mattino alle 6.00 del giorno successivo, inventa un gioco per allietare il tempo dell’attesa, in fila per il biglietto: fingiamo di essere una gaia famigliola, e chissà che in questo modo non si riesca a ottenere qualche sconto sull’ingresso…
Così se Eraldo è il pater familias, e Cristina è la mamma, io e Fabio non possiamo che essere i figlioli, gli angioletti del focolare.
«Fabio, il primo figlio, è arrivato per caso…» spiega mamma Cristina, fiera della sua prole nuova di zecca.
«Invece con me avete riflettuto!» intervengo.
«E guarda un po’ che risultati!» replica lei…
Ormai siamo giunti, in seguito a un’estenuante fila, presso la Saint Chapelle, realizzata alla fine del Duecento per ospitare le reliquie di Luigi IX. Il luogo ci disarma totalmente, tanto che non è possibile trattenere un «oooooh!» di meraviglia nel passaggio dalla cappella inferiore a quella superiore, vera espressione del gotico supremo e del pezzo d’infinito che c’è in ognuno di noi, anche in Gira-La-Moda, ancora un po’ accigliata per la questione del coltello.
A malincuore abbandoniamo l’angolo più sublime di tutta Parigi per raggiungerne uno che non è certo da meno: la cattedrale di Notre Dame, dove tuttavia mi dimentico di “fare il gobbo”, anche perché, nel bel mezzo della Messa, non ne vale proprio la pena.
Tra un rosone e l’altro, un tour nelle metropolitane parigine (che ormai conosciamo meglio di S. Ambrogio e Cadorna messe insieme) e qualche sorprendente taglio di Fontana, il tempo s’invola, e il sole cede il passo alla sera.
Per quanto riguarda quest’ultima notte parigina, è doveroso porre l’accento su alcuni avvenimenti che rendono la nostra permanenza (ormai volta al crepuscolo, ahimè!) più lieta: innanzitutto, in seguito a una frenetica quanto vana quest, una caccia al Mac Donald in tutta Parigi (durata praticamente una settimana) ci rendiamo conto che il locale che cerchiamo è proprio sotto casa, dalle parti dell’albergo. Succede solo lì!
Quindi, la nostra cara compagna Ilaria decide di cambiare stanza, e trasferirsi dalle sue amiche: ci chiediamo soltanto perché non l’abbia fatto prima!
Infine, in seguito all’economica cena da Mac Donald, decidiamo di recarci tutti insieme a Monmartre, dove Daphne rivela le sue abilità canore, mentre il pianista del locale in cui ci fermiamo non soddisfa neppure una delle nostre richieste musicali, negandoci anche Le vie en rose: insomma, un vero cafone.
Al ritorno in taxi, da veri parigini, segue una notte di preparativi: tra chiacchiere, saluti, bagagli da preparare, cartoline da scrivere e docce con tanto d’asciugamano, non ci accorgiamo neppure di essere ancora in piedi alle tre e mezza, del resto come ogni sera della nostra permanenza.
«Andiamo a letto, fra tre ore dobbiamo alzarci…»
La notti parigine sono brevi.
SESTO GIORNO: 29 APRILE
Ancora assonnati, organizziamo il nostro mattino di percorsi alternativi: ognuno visita ciò che preferisce… chi il centro di Parigi, chi la casa di Moureau, chi torna al famigerato Fuscion…
«Io vorrei vedere la torre Eiffel» propone Elena per la trentanovesima volta.
«Roba da casalinghe annoiate…» pensa Daphne, e infatti vi si reca senza indugio.
Un corposo gruppo, intanto, conclude il tour dei musei con la visita alla casa di Moureau, dove Sara si lascia andare completamente, profanando la solennità del luogo… in particolare delle toilette.
Al ritorno in metropolitana, come se non bastasse, un ragazzo bresciano, detto Sylvester per via della notevole somiglianza con l’interprete di “Rocky”, “Rambo” e “Bubi”, si blocca tra le porte del metrò, trappola insidiosa per almeno quindici minuti di agonia. Povero Stallone!
Le nostre strade si ricongiungono al Louvre, dove ci ritroviamo tutti, in perfetto orario in seguito alle raccomandazioni e alle minacce di Cristina Casero, che naturalmente si presenta con mezzora di ritardo.
Poco importa: nell’attesa cerco di scattare qualche fotografia con l’elitaria macchina di Elena, che tuttavia non funziona se non in mano a persone di nobile schiatta; pertanto i risultati sono penosi.
Giunti finalmente all’interno del celebre museo, lottiamo come gladiatori contro gli eserciti di turisti giapponesi, e, tra una gomitata e un calcio negli stinchi, giungiamo alla sezione dedicata all’Ottocento, in cui la prof. Cristina ci erudisce con la sua ultima “spiega”.
Al Louvre ci riempiamo gli occhi d’immenso: oltre ai paesaggisti romantici, incontriamo i pittori italiani del Trecento, Quattrocento e Cinquecento, con Giotto, Cimabue, e, ovviamente, Leonard de Vinces!
Dunque i francesi non si accontentano di rubare i mondiali, gli europei e parte integrante del patrimonio artistico italiano, ma addirittura deturpano i nomi dei nostri pittori, cercando di accaparrarsene i natali.
Il momento più inquietante della visita, tuttavia, ha avuto luogo quando un quadro del ributtante Cosmè Tura, in cui speravo proprio di non dovermi imbattere, si è materializzato di fronte a noi, suscitando il mio sdegno irritato. Cosmè, perché?
Le sorprese sembrano essere ormai volte al termine, quando, nella sezione dedicata all’arte greca, avviene la vera “carrambata” del giorno: tra una Venere di Milo e una Nike di Samotracia, direttamente dall’Argentina, Flavia de Palma[7], è qui!! (e tornerà a casa con il nostro stesso treno!).
A proposito di ritorno, è ormai giunta l’ora di lasciare il Louvre e i suoi innumerevoli capolavori, non prima di aver espresso un messaggio minatorio: ridateci la Gioconda!
Così, giunti in albergo a recuperare i bagagli, ci rendiamo conto, combattuti tra un’improvvisa malinconia e gli sbadigli dovuti alle notti insonni, che tutto ormai sta volgendo alla fine, anche perché siamo costretti a dividerci dal gruppo pullman, in partenza, disturbato soltanto da qualche punkabbestia franco–bresciano.
Il nostro treno parte invece più tardi, alle 22.00, in una stazione vicina al Parco dei Principi, lo stadio del Paris Saint German. Durante il tragitto per raggiungerla abbiamo l’impressione di aver dimenticato qualcosa. Ma cosa?
«Forse lo spazzolino? No, l’ho messo via…»
«Ecco” esclamo rassicurata «ho dimenticato di mandare una cartolina…»
No, c’è qualcosa di più…
«La Lavi»
«La lavi?»
«La Lavy!!»
«La Lavinia! Abbiamo perso la Lavinia, fermatevi tutti!»
Tempestivamente Cristina Casero cerca di mettersi in contatto con la latitante, che, al cellulare, dichiara di trovarsi ancora al Louvre, soverchiata dall’avvenenza di chissà quale opera; in compenso promette di prendere il treno, poi sbaglia stazione, e chi s’è visto s’è visto: la nostra cuccetta è vacante di un posto, quello di Lavinia, appunto, rimasta a Parigi (e visse felice e contenta).
La notte è fredda e ghiacciata, e, nel nostro vagone letto il riscaldamento è rotto; pertanto si preannunciano ore di patimenti, anche perché il cuccettaio (o cucciolo) non vuole proprio interessarsi alla nostra tremante situazione.
Cerco allora di rompere il ghiaccio citando il Purgatorio di Dante, ispirata dal notturno paesaggio che scorre dal finestrino e dalla luna piena che siamo costrette a guardare, poiché anche le tapparelle sono rotte! Eppure, appena attacco con la Divina Commedia, tutti si addormentano.
Altro che Purgatorio! Questo è il girone del conte Ugolino, e non sono sufficienti i vestiti, i giubbotti e le coperte impregnate di acari a preservarci da malesseri e reumatismi.
D’altronde, è quasi l’alba ormai, e non resta che attendere, con queste benedette campagne “alla Friedrich[8]” che seguitano inesorabilmente a passarci davanti, magari pensando a quanto questa notte, ultima notte, sia differente e unica rispetto a quelle parigine: brave, folli, deliranti, brevi.
SETTIMO GIORNO: EPILOGO
E al mattino è veramente finita: siamo in Italia, in Lombardia, a Milano, in stazione Centrale, già dilaniati dalla nostalgia.
Tutto ci appare più piccolo e angusto, a partire dalla stazione e dalla metropolitana. E poi, vuoi mettere Brera con Monmarte… S. Ambrogio con la Saint Chapelle… la Cattolica con la Sorbona?
Insomma, non ci restano che i saluti, coronamento di questa breve parentesi d’oltralpe, e tanti sguardi stanchi, allegri, che si scrutano attorno non privi di qualche perplessità: se Parigi val bene una Messa, Milano neanche quella?
[1] L’agenzia viaggi dell’Università Cattolica
[2] Zanchetti, professore di storia dell’arte contemporanea nell’anno accademico 2001-2002
[3] Celestina Milani, docente di Filologia Micenea, Linguistica Romanza e Glottologia. Luciano Caramel, titolare della cattedra di storia dell’arte contemporanea
[4] Au lait?
[5] Allusione a un episodio della Gerusalemme Liberata
[6] La frase corretta sarebbe stata: «nosotros estamos buscando nuestros amigos»
[7] La nostra Flavia, compagna di corso incontrata casualmente a Parigi
[8] Caspar David Friedrich (1774-1840), pittore
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